Palcoscenico vuoto, ad eccezione di un leggio posto alla destra del pubblico e di una sedia dal lato opposto. La luce è lieve e soffusa, ma il protagonista è illuminato da un occhio di bue puntato quasi perpendicolarmente sul leggio. L’uomo è anziano, dal volto segnato, ombrato dalla luce come se fosse mezzogiorno, nell’oscurità come se fosse mezzanotte. Indossa abiti comuni e un paio di occhialini da lettura. È pacato, rassegnato.
Ho sempre pensato che in fondo sia fortunato a poter aprire gli occhi ogni mattina, avere facce familiari intorno e poter semplicemente vivere. L’ho sempre fatto. Sono sempre stato il ragazzo ottimista che risollevava l’animo, quello che scuoteva la tristezza come un cocktail e la lasciava stordita e sopraffatta dalla serenità. Ma adesso basta. Basta fingere che vada tutto bene, che debba essere felice e grato a qualcuno, chissà chi, per tutto ciò che ho. Tutto quel che ho, tutto quello che mi è rimasto, non è nient’altro che derivato dalle mie scelte e quel che ho perso dai miei errori. E quel che ho perso più di qualsiasi altra cosa in tutta la mia vita è il tempo. Secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi. Anni. Anni inutilmente spesi a vivere la mia vita fingendo di essere felice. Come un attore sul palco del suo cavallo di battaglia finsi fino a calarmi nel personaggio talmente che dimenticai chi fossi io davvero; e così è andata avanti la mia vita, tra una battuta scritta da qualcun altro, dal regista della mia vita, e un’improvvisazione qua e là, per dar tono alla scena interminabile dell’esistenza umana.
Adesso sono vecchio, non oso dire anziano perché se sapeste la mia età mi prendereste per gioco, e vivo la mia vita con quel pizzico di tristezza e di malinconia che è giusto che un vecchio indossi. Forse ne ho messo un pizzico di troppo, perché la pasta del mio essere mi pare troppo sapida per i miei gusti. Beh, forse per i gusti della mia maschera.
Ecco, una maschera, una metafora tanto antica e tanto abusata, ma anche tanto precisa nel descrivere la mia misera condizione di essere umano convinto fino alla fine di poter essere felice mostrando la faccia che trova più approvazione nel volto degli altri, quella del comico.
Così sono diventato un comico, un giullare, mi sono reso la beffa di me stesso e niente più, ignorando la faccia della moneta più consumata e ossidata, verde d’invidia per il volto tanto amato dagli altri, ma anche tanto malata da chiudersi in sé stessa e trascinare lentamente anche la felicità nel proprio abisso.
È stata lenta, ma alla fine ce l’ha fatta. Si è portata dietro anche il più piccolo sprazzo di felicità, e l’ha ricoperto di cenere verde condannandolo alla sua stessa fine. Così ho recuperato il tempo perduto, e ho spiegato con grandi parole e non molto placidi gesti il mio disappunto per quegli imbecilli che avevano tutto e piangevano fino a portarsi dolori alle tempie, fino a che gli occhi smettevano di lacrimare tanto erano secchi. Loro, che avevano tutto, e io, che avevo perso tutto quello che amavo, eppure ero io a doverli convincere che valeva la pena di combattere? Loro sì che avevano qualcosa, qualcuno per cui combattere.
Afferra il foglio che teneva sul leggio, stropicciandolo lentamente. Si sfila gli occhiali e con la stessa mano punta il dito contro il pubblico, con fare accusatorio.
Io ho combattuto per voi, razza di idioti, che siete convinti che il mondo sia malvagio perché non siete contenti di quello che vi ha dato. Guadagnatevelo, guadagnatevi un amore, una donna, una famiglia. Donatevi completamente ad essa, e perdetela come perdi una lacrima in un battito di ciglia. Subito vi abbandona, ma lascia un solco umido mentre scorre lenta sul vostro viso come a ricordarvi che prima eravate padroni delle vostre emozioni, e che adesso esse hanno preso il sopravvento sulle vostre decisioni, sui vostri pensieri, sui vostri sogni. Teneteveli stretti, i vostri stramaledetti sogni, perché arriverà un giorno della vostra vita in cui vivrete solo di quelli e dei vostri fallimenti.
Posa il figlio sul leggio, tenta di stenderlo senza molto successo. Lentamente abbandona il leggio e si avvia in proscenio.
Ero convinto di questo, quando ancora non avevo rinunciato al pupazzo che parlava al mio posto così che io potessi non metterci la faccia e sembrassi tanto sicuro di me da ignorare la mia vita che crollava pian piano ma anche tanto in fretta che gli occhi che mi fissavano dall’esterno della mia bolla di gas allucinogeni ne notavano le frane che trascinavano dietro le fila di una vita costruita a regola d’arte sui sogni, ed erano affascinati dalla forza con cui le affrontavo senza sprofondare a valle con la terra e i detriti, e disgustati dalla apparente indifferenza dei miei sguardi.
Volevo vendere la mia felicità fintanto che la mia armatura avrebbe retto, ed effettivamente è durata non poco nonostante le continue fratture per i pianti soffocati e le urla, uccise prima di crescere abbastanza da invadere per sempre la mia vita, ma che ad un certo punto affollavano troppo le città barricate dei miei pensieri in cui le avevo rinchiuse in attesa che si fossero ribellate, conquistandomi dall’interno.
Si siede sulla sedia. È triste, avvilito.
Io avevo avverato il mio sogno più grande nel concepire una piccola donna, che avrei amato forse più di quanto avevo amato la madre, che avevo amato con tutto me stesso, e l’ho fatto, l’ho amata quasi fino a dimenticare l’amore per la donna che avevo sposato.
Quando il mio sogno si è infranto in una folata di vento, quando è stato risucchiato da un treno in corsa sotto gli occhi dei suoi amici, sua madre si è lasciata sprofondare nella tromba dell’uragano che aveva travolto tutti e tre, e forse ha fatto bene. (Si alza dalla sedia.) Io mi sono convinto che c’era bisogno di essere forte e affrontare tutto quello schifo che si stava abbattendo sulla mia vita come una pioggia di sangue e pietre aprendo un ombrello e un sorriso da un orecchio all’altro, invece di rannicchiarmi come ha fatto lei sotto il tetto di casa nostra, sotto il caldo abbraccio di lenzuola bianche appena lavate con le sue stesse lacrime. Ho sbagliato. Lei ha affrontato il diluvio e l’ha superato, almeno in parte, io ho riempito il cuore d’acqua sporca, e continuo costantemente a berne un sorso, ogni giorno, come una punizione per non aver potuto salvare il mio piccolo sogno infranto in mille schegge che mi hanno trafitto il cuore, e che in piccoli tagli, poco alla volta, mi hanno dissanguato, lasciandomi solo un involucro di carne bianca ed ossa rotte. Un involucro vuoto.
Prendiamo le mani di chi trova sé stesso
sull’orlo d’un fiore appassito a dicembre.
Prendiamo le mani di chi guarda lontano
oltre il muro dei vetri dove nasce la vita.
Piene le mani di certe illusioni
vagheggiate da idoli vuoti.
Piene le palme di pugni chiusi
che colpiscono senza motivo.
Oceani di speranze e sogni
avvolti da bolle di vetro artificiali.
Mari di vendette e indifferenze
velate da sorrisi di ineffabile rancore.
Uomini, donne, bambini!
Date loro la caccia!
Rendete vendetta per il tempo sprecato
a rendere omaggio ai vostri idoli!
Popoli di pastori e di bestiame
preceduti da lunghi bastoni bianchi.
Popoli di stanatori e latitanti:
cercano e fuggono, ma cadono all’unisono.
Uomini o angeli sommersi
d’ovazioni e di profane preghiere.
Uomini o pecore annegati
in disinibite bestemmie benpensanti.
Ma adesso dimmi per quale avvenire
strisci per terra con le bestie
lasciando che siamo gli altri
ad alzare lo sguardo e vedere lontano.
Se hai le forze di sollevare il capo,
al contrario di scrofe impotenti,
malato del male più grande del mondo,
vai, Lazzaro, alzati e cammina.
Lo stato che vorrei
è uno stato senza confini,
che non si limita a dire
di che nazionalità tu sia.
Lo stato che vorrei
ha un governo che non impone,
ma si impone di fare
ciò che è meglio che sia fatto.
Lo stato che vorrei
siamo noi.
Disegniamo confini
su brandelli di carta,
fossati per proteggerci
da ciò che ci sembra diverso.
Tracciamo i nostri stessi limiti,
per restare coi piedi e coi palmi per terra
senza far scorrere il vento sotto le ali,
chiudendo i pugni nelle tasche dei nostri avi.
Lo stato che vorrei
siamo noi.
Siamo noi che prendiamo per mano una donna
partita per il viaggio da molto lontano.
Siamo noi che basta non avere odio
e le vostre leggi non servono a niente.
Quando capiremo di sbagliare ad uccidere,
quando capiremo che rubare non è reato,
se forse capissimo che l’odio è un errore
potremmo divenire la nostra unica legge.
Non basterà un litigio con mia madre,
a nulla servirà lo sgarro di un amico
per smuovermi dall’idea d’un amore,
d’una speranza, afferrata tempo fa.
Penserai di trovare un cassetto
con dentro le gemme più lucenti,
ma c’è una vita appuntata a un biglietto
con tutti i suoi errori e le correzioni.
Insieme ad un vecchio padrone
che comanda ai suoi servi più cari
per l’ultima volta, con l’ultima voce,
di ridargli la vita, di mandare i profeti.
E mi prendi per mano incrociando le dita,
annodando i nodosi rami di mani.
Mi carezzi col pollice il dorso del pugno:
uno sguardo, un sorriso, e il calare degli occhi.
Tu mi dici è stato meglio aspettare
che incrociare lo sguardo anni fa.
Forse avevamo più tempo allora,
ma in fondo cosa importa più?
Ora va’ dove ti pare,
tanto prima o poi tornerò a bussare.
È oramai banale parlare d’amore,
perché forse d’amore oramai non ce n’è.
Ronza un’ape sulla terra rugosa
bagnata e secca dal tempo d’aprile.
Dormo sereno, poggiato su un fianco,
dorme il mio braccio su un letto di donna.
Le tue labbra percorrono lente
un timido sorriso
sul volto d’avorio
d’un breve inverno.
Il sogno di un effimero sonno
è un incubo atroce;
il sogno d’un sonno profondo
ti aiuta a trovare un silenzio di pace.
Ma adesso va’ dove ti pare,
prima o poi tornerò io a bussare.
È ormai banale parlare d’amore,
perché forse d’amore oramai non ce n’è.
Fa che prima il sorriso
e poi la risata
mi dipingano il volto
come quando sul mare
c'è il Sole che muore.
Fa che nella penombra
la mano e lo sguardo
incontrino ancora
l'amico sincero
che mi riporti ai vissuti lontani.
Fammi ridere quel poco
per inseguir le fantasie e le emozioni,
a riprendermi e correre,
per essere poi forte
a delusioni e distacchi.
Fammi ridere anche se stanco
e in un mare d'inopia
cerco mani sicure
cui afferrarmi.
Fammi ridere ancora
mentre scrivo inseguendo parole
per fermarle,
riottose alla frusta e cavezza,
per carpirne l'essenza
e ricordarle per guarir da tristezza.
Fammi ridere col ricordo
del vapor venire via dalle nari
tra gli schizzi di saliva e sudore.
Fammi ricordare
quel brontolio e il sussurro
dell'anima mentre percepivo
la sua vitalità tra i crini
nel rumor del galoppo.
Sarebbe bello uscire di casa
appena ne senti il rumore sottile
e farti la doccia con la pioggia
per lavare il viso dalle lacrime.
Sarebbe bello tuffarsi nel mare
quando in costume ne senti l’odore,
per sentire sul tuo volto, la tua pelle,
come se le lacrime non fossero tue.
E adesso dimmi dove andrai
nel tuo viaggio verso il cielo
attraverso le nuvole.
E adesso dimmi dove andrai,
guidato dai tuoi occhi,
che vedo pieni di malinconia.
Sarebbe meglio trovare il tramonto
quando apri gli occhi e ti senti più solo,
in compagnia del tuo sole, la tua stella,
e la luce che illumina la polvere.
Sarebbe meglio un bicchiere di vino
per intingere le labbra sottili,
per tingere di rosso il palato
e addolcire la lingua e la gola.
E adesso dimmi dove andrai
nel tuo viaggio verso il cielo
attraverso le nuvole.
E adesso dimmi dove andrai,
guidato dai tuoi occhi,
che vedo pieni di malinconia.
Labbra secche per questo freddo,
lacrime secche su quelle calde guance,
occhi rossi su quella faccia bianca,
iniettati di sangue congelato.
La tinta del mio sangue assume le forme
d’un calice di cristallo poggiato sulla tavola.
Come vino rosso ne disegna i contorni,
ne bevi piccoli sorsi per sentirne l’odore.
Cosa sarà questo pianto che sento appena?
Magari è la paura di dire addio.
Magari è il timore di cambiare sorriso.
E perché le tue lacrime trascinano le mie?
Tu mi dici che parli di me.
Io chiedo scusa per non fidarmi di te.
Ma forse i versi che ho scritto
li ho scritti per vederli morire.
Credi che sia vietato velarci dietro le tende,
dietro le finestre e dietro le porte
dell’unico luogo che abbia mai potuto
chiamare veramente casa.
Credi che sia lecito vederci per le strade,
sotto le finestre e sotto le porte,
e dare aria all’aria
se parliamo d’amore.
Cosa sarà questo pianto che sento appena?
Magari è la paura di dire addio
Magari è il timore di cambiare sorriso.
E perché le mie lacrime non trascinano le tue?
Oramai il tempo non scorre
inesorabilmente silenzioso,
in punta di piedi, senza che te ne accorga,
minuto dopo minuto, secondo dopo secondo,
in un ticchettio di tacchi da donna.
Il tempo passa, e ti penetra i timpani;
ti fa bruciare gli occhi, ti riempie i polmoni;
ti fa tossire. Stancare. Invecchiare.
E tu, stordito e impaurito da lui,
con la vista annebbiata dalle sue percosse
speri ancora, seppure impossibile,
di riuscire a fermarlo,
anche se per un singolo attimo,
Sarò il vento nella notte, ti prego non fare rumore.
Sarò il silenziatore per le tue pistole.
Ma se sentirò gli spari, se stanotte piove
ti pioveranno addosso, anche se Dio non vuole.
Se della tua cena noi siamo gli avanzi,
se ancora ci strofini a terra come stracci, in questa
notte languida saremo noi ad alzarci per riscuotere
gli assegni e dire urlando al vento "non cercarci".
Tu che ancora non mi hai detto grazie,
tu che per un patto, porti disgrazie
tu che ancora cerchi la redenzione
sei il carceriere della tua prigione, chiuso dentro
un'illusione frantumata come i vetri di uno specchio
infranti dalla cenere che hai dentro, e non riesci
più a guardare quel riflesso, in fondo al quale ti sei perso,
consumato dall’invidia, tu vivi nella tua accidia.
Sei scampato alla tua stessa morte,
hai stravolto la tua stessa sorte,
diventando un fottuto giullare di corte.
Sei un giullare di corte!
Non ho mai provato ad amarti, in fondo,
ho immaginato fosse più semplice spezzarti.
Ma ci ritroveremo ancora insieme, nella notte del giudizio
e combatterò per te. Metterò fine al tuo supplizio.
Hai pensato di poterti alzare sulle nostre teste,
di poter guardare il mondo che bruciava della propria peste,
Hai pensato di poterti rialzare,
sopra un mondo che cade nel dirupo del male.
Hai dimenticato cosa veramente aveva spinto
il più bello tra gli arcangeli a cadere dal dipinto
a tentare di riscrivere il futuro già deciso
da chi adesso quelle ali gli ha reciso.
Ti sei imposto che in quel baratro in cui sei caduto
vorrai portare con te ogni tuo prossimo detenuto.
Per scontare la tua pena insieme a coloro per cui
per la tua gelosia hai preferito te a Lui.
Non ho mai provato ad amarti, in fondo,
ho immaginato fosse più semplice spezzarti.
Ma ci ritroveremo ancora insieme, nella notte del giudizio
e combatterò per te. Metterò fine al tuo supplizio.
Hai scelto di sacrificare la tua dignità
Come sempre hai peccato quasi solo di viltà
Dopo tutta questa frustrazione
di una strenua profanazione.
Ucciderti? Nient’altro che competizione.
Sei stato accecato dalla stella del mattino
a cui ti sei piegato con un caloroso inchino
con la schiena curva come quella di un facchino
come quando porgi tristi onori sul tuo stesso baldacchino.
Sei convinto che la morte sia la tappa terminale
ma non sei ancora all’inizio della scalata del crinale
con cui vuoi giustificare il tuo spirito animale
ti sei perso nell’abbraccio freddo del tuo stesso male.
Nel concepimento del conclave - Lui che dorme -
ci hai privato della Luce in tutte le sue forme
nell’intento di seguire le sue orme.
Te ne sei corto troppo tardi,
penzolavi dalla forca a testa in giù,
ti riporterò all’Inferno,
è inutile che ti contorca più.
Non ho mai provato ad amarti, in fondo,
ho immaginato fosse più semplice spezzarti.
Ma ci ritroveremo ancora insieme, nella notte del giudizio
e combatterò per te. Metterò fine al tuo supplizio.