Proscenio. Sulla sinistra c’è una poltrona e un tavolino da servizio, imbandito con un bicchiere di cristallo, una bottiglia di liquore piena, due candeline e un accendino zippo. Ai piedi della poltrona c’è un piccolo pacco regalo.
La scena è appena illuminata.
Entra dal fondo della platea un uomo sulla sessantina. Indossa un cappotto, un completo da ufficio, con la cravatta, ha l’orologio al polso e porta una ventiquattrore, la scatola di una torta gelato, e un pacchetto regalo con dentro un orologio nuovo.
Torna quasi di corsa, stanco, da una lunga giornata di lavoro. Si aspetta invano, almeno quest’anno, di trovare i figli ad aspettarlo.
Chiara sono qui! (tra sé) Madre mia, sono una pezza (a Chiara, che non c’è) Scusa il ritardo, ho preso traffico. (pausa) Sì, lo so che ho preso il treno, intendo che ha fatto tardi. (pausa) Dai non fare così, hai capito cosa intendo! (pausa) Ho detto che mi dispiace! Chiara, mi senti?
L’uomo sale le scale laterali da destra, sfinito. Lascia la ventiquattrore a terra. Al centro fa un sospiro e batte tre volte il tacco per terra. Si avvicina alla poltrona, lascia la torta gelato sul tavolino, si sfila il cappotto e lo appende in aria, cade. Fa un sospiro, batte tre volte a terra. Borbotta.
Vorrei sapere chi continua a spostare questo attaccapanni. Non ho il tempo di abituarmi a un lato che lo ritrovo dall’altro.
L’uomo raccoglie il cappotto e lo poggia sulla poltrona continuando a borbottare parole incomprensibili. Si allarga la cravatta lentamente, annusa l’aria, che puzza di chiuso.
Quante volte vi ha detto vostra madre di aprire queste maledette tapparelle? Non si respira qua dentro.
L’uomo va ad aprire le finestre fuori scena. Poi sempre fuori scena.
Vivete come i pipistrelli, al buio. Sì, è chiaro, adesso è sera, ma durante il giorno magari, per sbaglio, entra un raggio di sole.
Torna in scena.
Chiara! Mah, forse ancora non è arrivata.
Lentamente lo sguardo si rattrista. Batte tre volte a terra.
Ma chi prendo in giro.
Ridacchia autoironico.
Questa casa un tempo era tanto viva. Ma ora che lei se n’è andata, con lei è morta anche la casa. La nostra casa.
Si siede con evidente sforzo sulla poltrona, sospira, apre la torta e la decora con le due candeline. Le accende. Pensa un desiderio e soffia sulle fiammelle.
Anche quest’anno ho festeggiato la mia nascita da solo. Non penso di avere più un motivo per festeggiare.
Prende un biglietto anonimo incollato al pacco regalo, legge ad alta voce.
Buon compleanno.
Sorride amareggiato. Raccoglie il pacco regalo e scarta la confezione.
Da qualche anno lo stesso regalo: un orologio nuovo, per contare meglio il tempo.
Osserva l’orologio ancora nella confezione aperta, batte tre volte a terra con la punta del piede seguendo la lancetta dei secondi. Indossa l’orologio al polso scorrendolo oltre quello già indossato. Accende una sigaretta e versa del distillato in un bicchiere di cristallo. Fa una lunga boccata di fumo a pieni polmoni, come se fosse il proprio ossigeno, cicca la sigaretta ancora intera, e in un sorso svuota il bicchiere. Lo riempie nuovamente. Ripensa ai bei ricordi.
Mi viene da piangere, vorrei battere i pugni, urlare e contorcermi.
Beve e riempie un altro bicchiere.
In fondo la mente non è che una contorsione di ricordi ed emozioni, che litigano tra loro in una guerra che si acquieta solamente con la morte.
Beve e accende un’altra sigaretta. Fa un tiro.
Da quanto la contemplo, quella fine.
Batte tre volte a terra. Piange. Riempie un altro bicchiere e beve. Fuma. Convulsamente alterna queste due azioni.
Osserva la bottiglia quasi vuota poggiata sulle sue gambe, la alza debolmente in aria, con fare visibilmente alterato dall’alcol, brindando verso platea.
Poi, rassicurando il pubblico.
L’ultimo.
Versa tutto il contenuto della bottiglia nel bicchiere.
Beh, così non sarà difficile.
Ridacchia autoironico e visibilmente ubriaco.
La bottiglia vuota cade a terra, sussulta.
Piange. Porta una mano al petto dolorante per il cuore che batte con ferocia, poi due dita al collo per sentire il battito. È agitato, gli tremano le mani e ha le lacrime agli occhi, mentre rigira la fede al dito.
Parlando continua a bere, si accende un’altra sigaretta e fuma.
Sono anni che non vado a trovarla. (tenta di alzarsi, ma barcolla per l’alcol, e si risiede ridacchiando) Che strano non vederla per tanti anni, dopo che per altrettanti e più anni le ho dormito accanto. Tutto ciò che mi è rimasto di lei sono i nostri figli, oramai adulti, e i ricordi.
Che strana cosa, i ricordi. Senza di essi non saremmo noi stessi: ci fanno andare avanti con le gioie, gli amori, gli eterni sorrisi, e ci tormentano con il dolore. E i ricordi più belli, sono proprio quelli che ti portano più dolore.
Se n’è andata troppo presto, e mi manca il suo calore, i suoi sguardi.
In treno ero seduto di fronte ad un ragazzo. Mi ha ricordato me stesso, alla sua età, quando la conobbi. Avrei voluto urlargli di vivere, di viverla, la sua vita, di godere delle gioie di ogni momento, finché può. Finché ancora può non vivere solamente di ricordi. Ma non l’ho fatto. Sono rimasto in silenzio.
In silenzio, come è silenziosa questa casa vuota.
Piange, si contorce. Beve e fuma. Batte i pugni sulla poltrona, porta la mano tra i capelli.
Si addormenta seduto sulla poltrona lasciando cadere anche il bicchiere. Le luci calano lentamente, lasciando la scena in penombra.
Un occhio di bue si accende dal lato opposto del palco.
Chiara?
Si alza.
Sei qui?
Corre verso la luce, nel tentativo di abbracciare sua figlia.
Buio.
Poi, sempre in buio.
Anch’io ti voglio bene, piccola mia.
Interprete: Giancarlo Maria Giaccio
Tratto da: Vietato oltrepassare la linea gialla di Arturo Raja e Claudia Giaquinto