Campo Concerto

Quadri d’Opera

Quadri d’Opera, rassegna concertistica all’insegna dell’opera lirica, nasce dall’iniziativa delle classi di “Accompagnamento pianistico” del Conservatorio di Musica “G. Martucci” di Salerno in cui giovani

Approfondisci »
L'amor che move il sole e l'altre stelle. Concerto sinfonico in occasione del Dantedì
Campo Concerto

Dante Symphony | Dantedì

Quella del 25 marzo è una versione inedita dell’ardua Dante Symphony di Franz Liszt. Sono 102 i giovani talenti cimentati nell’interpretazione di repertorio di riconosciuta

Approfondisci »
Campo Concerto

PianoStop 2022

Un happening pianistico promosso dal Conservatorio “Giuseppe Martucci” dedicato alle opere di Chopin, Liszt, Schumann e Brahms.

Approfondisci »

Accedi a ES Records

per modificare i dati della tua scheda personale

oppure registrati

‘a morte d’e risate

Autoscroll Toggle
1
La tromba | monologo

Un ragazzo cammina lungo il bordo del proscenio come un funambolo, percorrendolo per intero.

Non ho visto che la mia ombra, passeggiando quella sera. Ma era buio, e forse non ho visto neanche la mia ombra, in quella sera senza luna. Nemmeno le stelle decoravano la cenere che mi faceva da cielo, in quella notte senza luce.
Ora il freddo mi penetra le ossa, ora il caldo mi fa ribollire il sangue; quella era proprio una strana sera di primavera. La mia ultima sera, dopo tante tutte uguali, l’ultima nella quale avrei potuto vedere il mio riflesso.
Non potevo certamente saperlo, e camminavo lungo la banchina ad occhi chiusi, un piede di fronte all’altro lungo la linea gialla che mi separava dalla vita.
Perdo l’equilibrio, spalanco gli occhi, la tromba del treno sovrasta la musica
degli auricolari, e fu l’ultimo suono.

Il ragazzo cade.
Buio.

Si. Fu proprio una strana sera di primavera.

Interprete: Pasquale Vergara
Tratto da: Vietato oltrepassare la linea gialla di Arturo Raja e Claudia Giaquinto

Persa in un baratro
d’erba alta ed altre
stramberie della mente.

Circondata da vespe
che mutilano corpi nudi
corpi soli di carne marcia.

Aggrappata alla vita
per un cappio al collo
fuso alla trave della morte.

Esplosa in mille frammenti
in mille proiettili
di verbi e sussurri.

Tagliata e lacerata
dalle stesse lame
di un rasoio usa e getta.

Prona con lo sguardo chino
su tutto ciò che resta
di quella che chiamavi dignità.

Ridi, ridi libertà,
perché lentamente
crepi.

Voce - Arturo Raja
Chitarra Elettrica Solista - Gabriele Volpe
Chitarra Elettrica - Gabriele Volpe
Chitarra Acustica - Paolo Termini
Pianoforte - Aronne Letizia
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Contrabbasso - Fabrizio Mandara
Basso Elettrico - Michele Lener
Batteria - Nicola Sassano
Per un singolo attimo

Oramai il tempo non scorre
inesorabilmente silenzioso,
in punta di piedi, senza che te ne accorga,
minuto dopo minuto, secondo dopo secondo,
in un ticchettio di tacchi da donna.

Il tempo passa, e ti penetra i timpani;
ti fa bruciare gli occhi, ti riempie i polmoni;
ti fa tossire. Stancare. Invecchiare.

E tu, stordito e impaurito da lui,
con la vista annebbiata dalle sue percosse
speri ancora, seppure impossibile,
di riuscire a fermarlo,
anche se per un singolo attimo,

anche se per un ultimo abbraccio.

Chitarra Acustica - Paolo Termini
Pianoforte - Aronne Letizia
Violino - Marco Melillo
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Contrabbasso - Fabrizio Mandara
Basso Elettrico - Michele Lener
Sequenze - Nicola Sassano
Come vorrei

Vorrei immergermi
nella foto dei miei ricordi,
assecondare la mia voglia
di riaverti accanto.

Vorrei vederti vecchio
con le rughe ed i segni del tempo,
la schiena ricurva
e il bastone accanto.

Vorrei avere più ricordi,
più memoria
del tempo insieme
del tempo normale,

in cui normali, ovvi,
banali, scontati,
erano i momenti
passati insieme.

Ora non sei che lì,
in quei momenti speciali
tanto banali
e tanto pieni di malinconia.

Vorrei tenerti come
avresti fatto tu con lei
se ancora fossi qui,
se ancora fosse qui.

Ma sarai per sempre giovane
per sempre padre di un giovane me.

Chitarra Elettrica - Gabriele Volpe
Chitarra Acustica - Paolo Termini
Pianoforte - Aronne Letizia
Basso Elettrico - Michele Lener
Batteria - Nicola Sassano
In me

On a black dot
in the centre of my room
crouched in myself
enclosed by four walls.

If I close my eyes
they’re far away
but when I look up
they’re so close.

They’re near to me
they pinch me
they crush me
they make me disappear.

Now I’m only a mind
there’s no head
no arms, no legs
the body is dead.

All is dark,
all has fallen in night,
and small, dim lights
begin to light the universe.

The spherical sides
became so close,
and the stars so bright,
and my mind so pressed.

They’re near to me
they pinch me
they crush me
they make me disappear.

Now I’m only a mind
there’s no head
no arms, no legs
the body is dead.

Now I’m in my room again
and I feel the burning of my pain.

Voce - Arturo Raja
Controvoce - Erica Raja
Chitarra Elettrica - Gabriele Volpe
Chitarra Acustica - Paolo Termini
Chitarra Acustica - Arturo Raja
Pianoforte - Aronne Letizia
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Basso Elettrico - Michele Lener
Quel desiderio

Quel desiderio
di muovere continuamente la testa
anche se sai
che ti farà male.

Quell’irrefrenabile desiderio
di seguire quella musica
sempre uguale, sempre nuova,
d’una vita vissuta.

Quella voglia
di chiudere gli occhi,
e di immaginare
un mondo.

Voce - Arturo Raja
Pianoforte - Aronne Letizia
Violino - Marco Melillo
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Vuoto | monologo

Palcoscenico vuoto, ad eccezione di un leggio posto alla destra del pubblico e di una sedia dal lato opposto. La luce è lieve e soffusa, ma il protagonista è illuminato da un occhio di bue puntato quasi perpendicolarmente sul leggio. L’uomo è anziano, dal volto segnato, ombrato dalla luce come se fosse mezzogiorno, nell’oscurità come se fosse mezzanotte. Indossa abiti comuni e un paio di occhialini da lettura. È pacato, rassegnato.

Ho sempre pensato che in fondo sia fortunato a poter aprire gli occhi ogni mattina, avere facce familiari intorno e poter semplicemente vivere. L’ho sempre fatto. Sono sempre stato il ragazzo ottimista che risollevava l’animo, quello che scuoteva la tristezza come un cocktail e la lasciava stordita e sopraffatta dalla serenità. Ma adesso basta. Basta fingere che vada tutto bene, che debba essere felice e grato a qualcuno, chissà chi, per tutto ciò che ho. Tutto quel che ho, tutto quello che mi è rimasto, non è nient’altro che derivato dalle mie scelte e quel che ho perso dai miei errori. E quel che ho perso più di qualsiasi altra cosa in tutta la mia vita è il tempo. Secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi. Anni. Anni inutilmente spesi a vivere la mia vita fingendo di essere felice. Come un attore sul palco del suo cavallo di battaglia finsi fino a calarmi nel personaggio talmente che dimenticai chi fossi io davvero; e così è andata avanti la mia vita, tra una battuta scritta da qualcun altro, dal regista della mia vita, e un’improvvisazione qua e là, per dar tono alla scena interminabile dell’esistenza umana.
Adesso sono vecchio, non oso dire anziano perché se sapeste la mia età mi prendereste per gioco, e vivo la mia vita con quel pizzico di tristezza e di malinconia che è giusto che un vecchio indossi. Forse ne ho messo un pizzico di troppo, perché la pasta del mio essere mi pare troppo sapida per i miei gusti. Beh, forse per i gusti della mia maschera.
Ecco, una maschera, una metafora tanto antica e tanto abusata, ma anche tanto precisa nel descrivere la mia misera condizione di essere umano convinto fino alla fine di poter essere felice mostrando la faccia che trova più approvazione nel volto degli altri, quella del comico.
Così sono diventato un comico, un giullare, mi sono reso la beffa di me stesso e niente più, ignorando la faccia della moneta più consumata e ossidata, verde d’invidia per il volto tanto amato dagli altri, ma anche tanto malata da chiudersi in sé stessa e trascinare lentamente anche la felicità nel proprio abisso.
È stata lenta, ma alla fine ce l’ha fatta. Si è portata dietro anche il più piccolo sprazzo di felicità, e l’ha ricoperto di cenere verde condannandolo alla sua stessa fine. Così ho recuperato il tempo perduto, e ho spiegato con grandi parole e non molto placidi gesti il mio disappunto per quegli imbecilli che avevano tutto e piangevano fino a portarsi dolori alle tempie, fino a che gli occhi smettevano di lacrimare tanto erano secchi. Loro, che avevano tutto, e io, che avevo perso tutto quello che amavo, eppure ero io a doverli convincere che valeva la pena di combattere? Loro sì che avevano qualcosa, qualcuno per cui combattere.

Afferra il foglio che teneva sul leggio, stropicciandolo lentamente. Si sfila gli occhiali e con la stessa mano punta il dito contro il pubblico, con fare accusatorio.

Io ho combattuto per voi, razza di idioti, che siete convinti che il mondo sia malvagio perché non siete contenti di quello che vi ha dato. Guadagnatevelo, guadagnatevi un amore, una donna, una famiglia. Donatevi completamente ad essa, e perdetela come perdi una lacrima in un battito di ciglia. Subito vi abbandona, ma lascia un solco umido mentre scorre lenta sul vostro viso come a ricordarvi che prima eravate padroni delle vostre emozioni, e che adesso esse hanno preso il sopravvento sulle vostre decisioni, sui vostri pensieri, sui vostri sogni. Teneteveli stretti, i vostri stramaledetti sogni, perché arriverà un giorno della vostra vita in cui vivrete solo di quelli e dei vostri fallimenti.

Posa il figlio sul leggio, tenta di stenderlo senza molto successo. Lentamente abbandona il leggio e si avvia in proscenio.

Ero convinto di questo, quando ancora non avevo rinunciato al pupazzo che parlava al mio posto così che io potessi non metterci la faccia e sembrassi tanto sicuro di me da ignorare la mia vita che crollava pian piano ma anche tanto in fretta che gli occhi che mi fissavano dall’esterno della mia bolla di gas allucinogeni ne notavano le frane che trascinavano dietro le fila di una vita costruita a regola d’arte sui sogni, ed erano affascinati dalla forza con cui le affrontavo senza sprofondare a valle con la terra e i detriti, e disgustati dalla apparente indifferenza dei miei sguardi.
Volevo vendere la mia felicità fintanto che la mia armatura avrebbe retto, ed effettivamente è durata non poco nonostante le continue fratture per i pianti soffocati e le urla, uccise prima di crescere abbastanza da invadere per sempre la mia vita, ma che ad un certo punto affollavano troppo le città barricate dei miei pensieri in cui le avevo rinchiuse in attesa che si fossero ribellate, conquistandomi dall’interno.

Si siede sulla sedia. È triste, avvilito.

Io avevo avverato il mio sogno più grande nel concepire una piccola donna, che avrei amato forse più di quanto avevo amato la madre, che avevo amato con tutto me stesso, e l’ho fatto, l’ho amata quasi fino a dimenticare l’amore per la donna che avevo sposato.
Quando il mio sogno si è infranto in una folata di vento, quando è stato risucchiato da un treno in corsa sotto gli occhi dei suoi amici, sua madre si è lasciata sprofondare nella tromba dell’uragano che aveva travolto tutti e tre, e forse ha fatto bene. (Si alza dalla sedia.) Io mi sono convinto che c’era bisogno di essere forte e affrontare tutto quello schifo che si stava abbattendo sulla mia vita come una pioggia di sangue e pietre aprendo un ombrello e un sorriso da un orecchio all’altro, invece di rannicchiarmi come ha fatto lei sotto il tetto di casa nostra, sotto il caldo abbraccio di lenzuola bianche appena lavate con le sue stesse lacrime. Ho sbagliato. Lei ha affrontato il diluvio e l’ha superato, almeno in parte, io ho riempito il cuore d’acqua sporca, e continuo costantemente a berne un sorso, ogni giorno, come una punizione per non aver potuto salvare il mio piccolo sogno infranto in mille schegge che mi hanno trafitto il cuore, e che in piccoli tagli, poco alla volta, mi hanno dissanguato, lasciandomi solo un involucro di carne bianca ed ossa rotte. Un involucro vuoto.

Buio.

Interprete: Arturo Raja
Tratto da: Vietato oltrepassare la linea gialla di Arturo Raja e Claudia Giaquinto
Bambina mia | monologo

La ragazzina è accovacciata a terra, intenta a scrivere una lettera, che recita ad alta voce.

Mi sentivo in colpa per aver voluto la sua morte, per aver immaginato la sua fine, e averla sognata tanto dolorosa.
Mi sentivo in colpa, ma adesso che ho il coltello dalla parte del manico, ora che il sangue scorre sul pavimento, adesso che lui è disteso su quel sedile blu con il respiro affannato; ora che ho la certezza che se ne andrà per sempre dalla mia vita, dalle nostre vite, non provo nient’altro che un senso di libertà, quasi di piacere.
Mi guardi negli occhi, mi chiedi perché. Credi di amarmi, persino mentre esali l’ultimo respiro. Provo quasi pena per lui.
Mi sentivo in colpa perché in fondo è un brav’uomo, e in questi anni ho imparato a volergli bene, ma non è lui la mia famiglia.

Rivolge lo sguardo alla platea.

C’è uno strano silenzio. La gente mi osserva. Anche voi avete paura di me, mi giudicate, senza sapere cosa mi ha spinto fino all’orlo dell’umanità, fino a uccidere un uomo.

Si alza in piedi, sempre rivolta alla platea. È aggressiva come per istinto di autodifesa.

Alza la voce, con le lacrime agli occhi.
Non volevo, è tutta colpa sua, è stato lui a rapirmi dalla vita! Ha sempre detto di essere mio padre, ma mentiva! Mentiva! Io non mi ricordo di lui!

Si inginocchia nuovamente sulla lettera, e torna a scrivere.

Ricordo ancora le tue parole, papà:

Si sente la voce registrata di un uomo.

Stanno venendo a prenderti. Ti porteranno via da me. Ti diranno che non sono tuo padre, e che da quel momento dovrai vivere con un altro uomo. Non aver paura. Ma non credergli, bambina mia. Mai.

Torna a parlare la ragazzina.

Mi hanno detto che eri una cattiva persona. Volevo che stessero zitti, che chiudessero quella bocca che sputava veleno. Una signora mi fece tante domande, mi chiese se “dormissimo abbracciati”. Come se fossi una bambina.

Si rivolge al pubblico, alzando la voce, come ammonendo.

È mio padre! che razza di mostro credete che sia?

Torna a scrivere.

Sono convinti che tu lo sia, un mostro. Dissero che mi avevi rapita; mi portarono da un uomo, dissero che era mio padre; dissero mille falsità, per convincermi delle loro verità. Le loro voci rimbombavano nella mia testa. Volevo solo essere lasciata in pace, e alla fine mi arresi.
Finsi di amarlo, finsi di odiarti, finsi di essere dalla loro parte, finsi di non sapere dove fossi. Ho finto tanto tempo, e del ricordo di te non è rimasta che una foschia indefinita di parole e sguardi. Mi hai abbandonata. Ti ho odiato, ho amato l’uomo che diceva di essere mio padre. Stavolta sul serio. Dopo un po’ lo chiamavo papà, e quasi mi dimenticai di te. Ti chiedo perdono.
Sono passati anni senza vederti, poi ho trovato questa lettera sul davanzale della finestra di camera mia. Ero felice e spaventata dal tuo ripiombare improvviso nella mia vita. Ci siamo, saremmo stati di nuovo io e te. Niente più falsi sorrisi, niente più bugie. Non gli avrei detto addio e sarei scappata al tramonto per tornare da te.
Erano cambiate tante cose, eppure non mi sarei mai aspettata tanta rabbia e tristezza. Credi che non ti ami più, che mi sia dimenticata di te, che abbia scordato il tuo amore e le tue cure; che abbia accettato il tuo sostituto.
Avrei voluto risponderti ad alta voce, urlarti che ricordavo tutto, che non desideravo nient’altro che tornare finalmente da te e vivere la vita che mi hanno costretta a dimenticare.
Ho passato dei lunghi giorni a pensare cosa dire, e finalmente eccola qui, la mia risposta. Spero che tu possa perdonarmi, e che torni da me.

Interprete: Sabrina Nastri
Tratto da: Vietato oltrepassare la linea gialla di Arturo Raja e Claudia Giaquinto
Uomini ciechi

Prendiamo le mani di chi trova sé stesso
sull’orlo d’un fiore appassito a dicembre.
Prendiamo le mani di chi guarda lontano
oltre il muro dei vetri dove nasce la vita.

Piene le mani di certe illusioni
vagheggiate da idoli vuoti.
Piene le palme di pugni chiusi
che colpiscono senza motivo.

Oceani di speranze e sogni
avvolti da bolle di vetro artificiali.
Mari di vendette e indifferenze
velate da sorrisi di ineffabile rancore.

Uomini, donne, bambini!
Date loro la caccia!
Rendete vendetta per il tempo sprecato
a rendere omaggio ai vostri idoli!

Popoli di pastori e di bestiame
preceduti da lunghi bastoni bianchi.
Popoli di stanatori e latitanti:
cercano e fuggono, ma cadono all’unisono.

Uomini o angeli sommersi
d’ovazioni e di profane preghiere.
Uomini o pecore annegati
in disinibite bestemmie benpensanti.

Ma adesso dimmi per quale avvenire
strisci per terra con le bestie
lasciando che siamo gli altri
ad alzare lo sguardo e vedere lontano.

Se hai le forze di sollevare il capo,
al contrario di scrofe impotenti,
malato del male più grande del mondo,
vai, Lazzaro, alzati e cammina.

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Chitarra Acustica - Paolo Termini
Pianoforte - Aronne Letizia
Violino - Marco Melillo
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Contrabbasso - Fabrizio Mandara
Basso Elettrico - Michele Lener

Sarete per sempre animali,
per sempre chini col capo sui banchi.
Sarete involucri di cellofan
per cesti da riempire di porcate per Natale.

Sarete sacchi di juta
da riempire di blasfemi Fraticelli.
Sarete i giorni più vuoti
da lambire con le vostre inutili pretese.

Siete certi che il vostro avvenire
sia avvolto dalle vostre mani,
ma siamo noi che lo stringiamo
cordoni di lenzuola coi denti e coi piedi.

Poggiate il capo sui nostri cuscini
per vedervi riempire la mente
delle nostre, ormai anche vostre,
inutili bugie.

Pregate il nostro Dio
che fermi il tempo
che noi abbiamo scandito
in libere ore.

(Ore) liberte da esser schiave
di sanguinolenti sacrifici umani,
di trincee di terra e fango
chiamate a soddisfare i nostri intenti.

Vedrete quante dita vi tranceremo,
e quante ai figli che non avremo,
per guardarvi scannare tra voi,
per scommettere sui vostri indici.

Alzatevi, e abbiate rispetto,
perché si contano più segni
sui nostri volti insofferenti,
sui nostri pensieri.

Saremo per sempre animali,
per sempre chini col capo sui banchi.
Saremo involucri di cellofan
per cesti da riempire di porcate per Natale.

Perché i nostri maestri
ci hanno tranciato più dita
che a voi.

Perché non con le mani,
ma con i denti e con i piedi
impregniamo le lenzuola dei nostri mali.

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Chitarra Acustica - Arturo Raja
Pianoforte - Aronne Letizia
Basso Elettrico - Michele Lener
Batteria - Nicola Sassano
Casa mia

Ci hanno invasi, perseguitati,
hanno stuprato mogli e figlie,
e sono rimasti impuniti.

Ci hanno sfruttati, depredati,
hanno portato guerra e carestia
per portare la loro democrazia.

Hanno rubato,
hanno preso il nostro sangue,
macellato i nostri figli e dataci la colpa.

Hanno portato i loro re
poi assassinati in colpi di stato
con le loro bandiere.

Vendute le armi loro ai terroristi
hanno portato la paura
e abbattuta la loro cara democrazia.

Ora che ho fame
e sete d'acqua e di giustizia
solcherò il mare tra le terre
e sarà la loro casa mia.

Solcherò il mare ridendo
con le lacrime di chi dice addio
con la bocca di chi dice parole
impastate di tristezza e speranza. (x2)

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Chitarra Elettrica - Gabriele Volpe
Pianoforte - Aronne Letizia
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Contrabbasso - Fabrizio Mandara
Basso Elettrico - Michele Lener
Ti hanno detto

Ti hanno detto
di lasciare perdere,
di lasciarmi perdere,
di abortire i sogni infranti,

di fantasticare
sulle loro mongolfiere
gonfiate con i fuochi
delle petroliere in fiamme.

Ti hanno detto
che tutti i tuoi problemi,
che tutto il tuo dolore
affogheranno nelle onde del Mediterraneo,

in una fuga di speranza
di salvezza, in un viaggio
con biglietto di sola andata
per il paradiso.

Ti hanno detto
di dimenticare
i loro volti affranti,
gli oceani di sangue in mare,

di perdonare gli uomini
assassini del colore,
di destinare il cuore
all’italiano, sola bandiera dell’amore.

Ti hanno detto
di lasciarmi pendere,
di lasciarli perdere,
cadere in acque territoriali.

Derubano le case,
ci rubano il lavoro
ci vendono la droga
prodotta dalle mafie.

Ti hanno detto
che quello che cerchiamo
di certo non lo trovi
sul suo palmo della mano.

Che non sono proprio uomini
ma carne da macello
addolcita con l’aiuto
promesso a casa loro.

Gridano, gridano,
gridano nel vento
quel negro sporco e lurido
non può esser mio fratello.

Bacio la croce,
ringrazio la Madonna,
che sarebbero d’accordo
a rigettarli nella fogna. (x2)

Ti hanno detto
di lasciarli perdere,
di lasciarmi perdere,
che sono un inutile buonista,

di processare uomini
senza mettere una toga,
affidarli alla vendetta e all’ira
non alla giustizia.

Ti hanno detto
che la proprietà privata
non sarà mai calpestata
da nessun morto di fame,

perché tanto la giustizia
potrai fartela da solo,
giustiziando in piazza pubblica
ogni negro a vista d’occhio.

Ci hanno detto di cacciarli,
ci hanno detto di estirparli,
di abbattere le case
e costruire parchi a tema,

non avranno alcun diritto
di richiedere l’asilo
da migranti irregolari
li rendiamo clandestini.

Gridano, gridano,
gridano nel vento
quel negro sporco e lurido
non può esser mio fratello.

Bacio la croce,
ringrazio la Madonna,
che sarebbero d’accordo
a rigettarli nella fogna. (x2)

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Chitarra Elettrica - Gabriele Volpe
Chitarra Acustica - Arturo Raja
Pianoforte - Aronne Letizia
Basso Elettrico - Michele Lener
Batteria - Nicola Sassano
La cultura dell'ormai

Il mercato canta alle cinque di mattina
E una donna anziana prega per la fine
La città si accende
Nessuno pretende di capire

La cultura dell’ormai
ormeggia tra la gente
Come marinai la parola vale niente
Eppure, vidi un uomo credere allo stato e farsi eleggere

Ora, credimi non esagero,
se scrivo è perché è vero
Molti preferiscono lavorare in nero
Perché è comodo rubare
con la cruda scusa della povertà

Chi ha tutto non ha niente,
chi ha niente cerca il pane
Eppure, è così facile
perdersi nel bene
Aiutare il prossimo
sana le ferite del governo

Uomini senza più passioni
corrono le strade della vita
senza più un’idea
Vittime senza più padroni
passano a rassegna i loro sogni
e vanno via.

Ma quanto può far male stare bene? Non lo so.
Per quanto può far male
stare insieme?

Al bar c’è la canzone
che diedero a Sanremo
Chi ascolta la commenta
per quanto non sia un genio
Tra un caffè e una sigaretta
il treno che si aspetta e fa ritardo

Un muratore smonta
una vecchia impalcatura
Un cane abbandonato
annusa segatura
Di chi il sabato sera
ha dato per scontato di scordare

Ma per le vie del corso
tra due negozi chiusi
si scambiano parole
due abusivi senza un sogno

Più giù sul lungomare
tra sabbia ed erba sporca
si scambiano siringhe
due abusivi senza scorta.

Uomini senza più passioni
corrono le strade della vita
senza più un’idea
Vittime senza più padroni
passano a rassegna i loro sogni
e vanno via

Ma quanto può far male stare bene? Non lo so.
Per quanto può far male
stare insieme ci sarò.
Fin quando farà male stare bene?
Non lo so.

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Chitarra Elettrica - Gabriele Volpe
Chitarra Acustica - Paolo Termini
Pianoforte - Aronne Letizia
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Contrabbasso - Fabrizio Mandara
Basso Elettrico - Michele Lener
Batteria - Nicola Sassano
Siamo noi

Lo stato che vorrei
è uno stato senza confini,
che non si limita a dire
di che nazionalità tu sia.

Lo stato che vorrei
ha un governo che non impone,
ma si impone di fare
ciò che è meglio che sia fatto.

Lo stato che vorrei
siamo noi.

Disegniamo confini
su brandelli di carta,
fossati per proteggerci
da ciò che ci sembra diverso.

Tracciamo i nostri stessi limiti,
per restare coi piedi e coi palmi per terra
senza far scorrere il vento sotto le ali,
chiudendo i pugni nelle tasche dei nostri avi.

Lo stato che vorrei
siamo noi.

Siamo noi che prendiamo per mano una donna
partita per il viaggio da molto lontano.
Siamo noi che basta non avere odio
e le vostre leggi non servono a niente.

Quando capiremo di sbagliare ad uccidere,
quando capiremo che rubare non è reato,
se forse capissimo che l’odio è un errore
potremmo divenire la nostra unica legge.

Non basterà un litigio con mia madre,
a nulla servirà lo sgarro di un amico
per smuovermi dall’idea d’un amore,
d’una speranza, afferrata tempo fa.

Lo stato che vorrei
siamo noi.

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Clarinetto - Giovanni Esposito
Chitarra Elettrica - Gabriele Volpe
Chitarra Classica- Arturo Raja
Pianoforte - Aronne Letizia
Basso Elettrico - Michele Lener
Batteria - Nicola Sassano
Buon compleanno | monologo

Proscenio. Sulla sinistra c’è una poltrona e un tavolino da servizio, imbandito con un bicchiere di cristallo, una bottiglia di liquore piena, due candeline e un accendino zippo. Ai piedi della poltrona c’è un piccolo pacco regalo.
La scena è appena illuminata.

Entra dal fondo della platea un uomo sulla sessantina. Indossa un cappotto, un completo da ufficio, con la cravatta, ha l’orologio al polso e porta una ventiquattrore, la scatola di una torta gelato, e un pacchetto regalo con dentro un orologio nuovo.
Torna quasi di corsa, stanco, da una lunga giornata di lavoro. Si aspetta invano, almeno quest’anno, di trovare i figli ad aspettarlo.

Chiara sono qui! (tra sé) Madre mia, sono una pezza (a Chiara, che non c’è) Scusa il ritardo, ho preso traffico. (pausa) Sì, lo so che ho preso il treno, intendo che ha fatto tardi. (pausa) Dai non fare così, hai capito cosa intendo! (pausa) Ho detto che mi dispiace! Chiara, mi senti?

L’uomo sale le scale laterali da destra, sfinito. Lascia la ventiquattrore a terra. Al centro fa un sospiro e batte tre volte il tacco per terra. Si avvicina alla poltrona, lascia la torta gelato sul tavolino, si sfila il cappotto e lo appende in aria, cade. Fa un sospiro, batte tre volte a terra. Borbotta.

Vorrei sapere chi continua a spostare questo attaccapanni. Non ho il tempo di abituarmi a un lato che lo ritrovo dall’altro.

L’uomo raccoglie il cappotto e lo poggia sulla poltrona continuando a borbottare parole incomprensibili. Si allarga la cravatta lentamente, annusa l’aria, che puzza di chiuso.

Quante volte vi ha detto vostra madre di aprire queste maledette tapparelle? Non si respira qua dentro.

L’uomo va ad aprire le finestre fuori scena. Poi sempre fuori scena.

Vivete come i pipistrelli, al buio. Sì, è chiaro, adesso è sera, ma durante il giorno magari, per sbaglio, entra un raggio di sole.

Torna in scena.

Chiara! Mah, forse ancora non è arrivata.

Lentamente lo sguardo si rattrista. Batte tre volte a terra.

Ma chi prendo in giro.

Ridacchia autoironico.

Questa casa un tempo era tanto viva. Ma ora che lei se n’è andata, con lei è morta anche la casa. La nostra casa.

Si siede con evidente sforzo sulla poltrona, sospira, apre la torta e la decora con le due candeline. Le accende. Pensa un desiderio e soffia sulle fiammelle.

Anche quest’anno ho festeggiato la mia nascita da solo. Non penso di avere più un motivo per festeggiare.

Prende un biglietto anonimo incollato al pacco regalo, legge ad alta voce.

Buon compleanno.

Sorride amareggiato. Raccoglie il pacco regalo e scarta la confezione.

Da qualche anno lo stesso regalo: un orologio nuovo, per contare meglio il tempo.

Osserva l’orologio ancora nella confezione aperta, batte tre volte a terra con la punta del piede seguendo la lancetta dei secondi. Indossa l’orologio al polso scorrendolo oltre quello già indossato. Accende una sigaretta e versa del distillato in un bicchiere di cristallo. Fa una lunga boccata di fumo a pieni polmoni, come se fosse il proprio ossigeno, cicca la sigaretta ancora intera, e in un sorso svuota il bicchiere. Lo riempie nuovamente. Ripensa ai bei ricordi.

Mi viene da piangere, vorrei battere i pugni, urlare e contorcermi.

Beve e riempie un altro bicchiere.

In fondo la mente non è che una contorsione di ricordi ed emozioni, che litigano tra loro in una guerra che si acquieta solamente con la morte.

Beve e accende un’altra sigaretta. Fa un tiro.

Da quanto la contemplo, quella fine.

Batte tre volte a terra. Piange. Riempie un altro bicchiere e beve. Fuma. Convulsamente alterna queste due azioni.
Osserva la bottiglia quasi vuota poggiata sulle sue gambe, la alza debolmente in aria, con fare visibilmente alterato dall’alcol, brindando verso platea.
Poi, rassicurando il pubblico.

L’ultimo.

Versa tutto il contenuto della bottiglia nel bicchiere.

Beh, così non sarà difficile.

Ridacchia autoironico e visibilmente ubriaco.
La bottiglia vuota cade a terra, sussulta.
Piange. Porta una mano al petto dolorante per il cuore che batte con ferocia, poi due dita al collo per sentire il battito. È agitato, gli tremano le mani e ha le lacrime agli occhi, mentre rigira la fede al dito.
Parlando continua a bere, si accende un’altra sigaretta e fuma.

Sono anni che non vado a trovarla. (tenta di alzarsi, ma barcolla per l’alcol, e si risiede ridacchiando) Che strano non vederla per tanti anni, dopo che per altrettanti e più anni le ho dormito accanto. Tutto ciò che mi è rimasto di lei sono i nostri figli, oramai adulti, e i ricordi.
Che strana cosa, i ricordi. Senza di essi non saremmo noi stessi: ci fanno andare avanti con le gioie, gli amori, gli eterni sorrisi, e ci tormentano con il dolore. E i ricordi più belli, sono proprio quelli che ti portano più dolore.
Se n’è andata troppo presto, e mi manca il suo calore, i suoi sguardi.
In treno ero seduto di fronte ad un ragazzo. Mi ha ricordato me stesso, alla sua età, quando la conobbi. Avrei voluto urlargli di vivere, di viverla, la sua vita, di godere delle gioie di ogni momento, finché può. Finché ancora può non vivere solamente di ricordi. Ma non l’ho fatto. Sono rimasto in silenzio.
In silenzio, come è silenziosa questa casa vuota.

Piange, si contorce. Beve e fuma. Batte i pugni sulla poltrona, porta la mano tra i capelli.

Si addormenta seduto sulla poltrona lasciando cadere anche il bicchiere. Le luci calano lentamente, lasciando la scena in penombra.

Un occhio di bue si accende dal lato opposto del palco.

Chiara?

Si alza.

Sei qui?

Corre verso la luce, nel tentativo di abbracciare sua figlia.
Buio.
Poi, sempre in buio.

Anch’io ti voglio bene, piccola mia.

Interprete: Giancarlo Maria Giaccio
Tratto da: Vietato oltrepassare la linea gialla di Arturo Raja e Claudia Giaquinto
Foglietto in un cassetto di legno di ciliegio

Penserai di trovare un cassetto
con dentro le gemme più lucenti,
ma c’è una vita appuntata a un biglietto
con tutti i suoi errori e le correzioni.

Insieme ad un vecchio padrone
che comanda ai suoi servi più cari
per l’ultima volta, con l’ultima voce,
di ridargli la vita, di mandare i profeti.

E mi prendi per mano incrociando le dita,
annodando i nodosi rami di mani.
Mi carezzi col pollice il dorso del pugno:
uno sguardo, un sorriso, e il calare degli occhi.

Tu mi dici è stato meglio aspettare
che incrociare lo sguardo anni fa.
Forse avevamo più tempo allora,
ma in fondo cosa importa più?

Ora va’ dove ti pare,
tanto prima o poi tornerò a bussare.
È oramai banale parlare d’amore,
perché forse d’amore oramai non ce n’è.

Ronza un’ape sulla terra rugosa
bagnata e secca dal tempo d’aprile.
Dormo sereno, poggiato su un fianco,
dorme il mio braccio su un letto di donna.

Le tue labbra percorrono lente
un timido sorriso
sul volto d’avorio
d’un breve inverno.

Il sogno di un effimero sonno
è un incubo atroce;
il sogno d’un sonno profondo
ti aiuta a trovare un silenzio di pace.

Ma adesso va’ dove ti pare,
prima o poi tornerò io a bussare.
È ormai banale parlare d’amore,
perché forse d’amore oramai non ce n’è.

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Pianoforte - Aronne Letizia
Violino - Marco Melillo
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Contrabbasso - Fabrizio Mandara
Batteria - Nicola Sassano
Penserai

Penserai
che sono un uomo distratto,
se voglio vivere tutto
il silenzio che ho dentro
in un pensiero non detto.

E come a vivere fai
senza riempire le orecchie e la gola
di qualche banalità
letta su qualche rivista sportiva
al tavolino del bar.

Penserai
che avevi proprio ragione,
a dimenticare
le borse già gonfie
e a recitare un copione.

E dimmi come farai
a ricominciare i discorsi già pronti
e chiedermi come va.
Che poi la risposta lo sai che non conta
che si sta bene si sa.

Penserai
di stare meglio da solo,
per poi realizzare
che senza nessuno
sei una barca nel molo.

Infatti come potrai
continuare a vivere
convinto che le onde
non cambino mai
se non lasci che il vento
ti porti via con sé.

Voce - Arturo Raja
Base - Pasquale Guerra
Fammi ridere

Fa che prima il sorriso
e poi la risata
mi dipingano il volto
come quando sul mare
c'è il Sole che muore.

Fa che nella penombra
la mano e lo sguardo
incontrino ancora
l'amico sincero
che mi riporti ai vissuti lontani.

Fammi ridere quel poco
per inseguir le fantasie e le emozioni,
a riprendermi e correre,
per essere poi forte
a delusioni e distacchi.

Fammi ridere anche se stanco
e in un mare d'inopia
cerco mani sicure
cui afferrarmi.

Fammi ridere ancora
mentre scrivo inseguendo parole
per fermarle,
riottose alla frusta e cavezza,
per carpirne l'essenza
e ricordarle per guarir da tristezza.

Fammi ridere col ricordo
del vapor venire via dalle nari
tra gli schizzi di saliva e sudore.

Fammi ricordare
quel brontolio e il sussurro
dell'anima mentre percepivo
la sua vitalità tra i crini
nel rumor del galoppo.

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Chitarra Elettrica - Gabriele Volpe
Chitarra Acustica - Arturo Raja
Violino - Marco Melillo
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Contrabbasso - Fabrizio Mandara
Basso Elettrico - Michele Lener
Batteria - Nicola Sassano
Giullare di corte

Sarò il vento nella notte, ti prego non fare rumore.
Sarò il silenziatore per le tue pistole.
Ma se sentirò gli spari, se stanotte piove
ti pioveranno addosso, anche se Dio non vuole.

Se della tua cena noi siamo gli avanzi,
se ancora ci strofini a terra come stracci, in questa
notte languida saremo noi ad alzarci per riscuotere
gli assegni e dire urlando al vento "non cercarci".

Tu che ancora non mi hai detto grazie,
tu che per un patto, porti disgrazie
tu che ancora cerchi la redenzione
sei il carceriere della tua prigione, chiuso dentro

un'illusione frantumata come i vetri di uno specchio
infranti dalla cenere che hai dentro, e non riesci
più a guardare quel riflesso, in fondo al quale ti sei perso,
consumato dall’invidia, tu vivi nella tua accidia.

Sei scampato alla tua stessa morte,
hai stravolto la tua stessa sorte,
diventando un fottuto giullare di corte.
Sei un giullare di corte!

Non ho mai provato ad amarti, in fondo,
ho immaginato fosse più semplice spezzarti.
Ma ci ritroveremo ancora insieme, nella notte del giudizio
e combatterò per te. Metterò fine al tuo supplizio.

Hai pensato di poterti alzare sulle nostre teste,
di poter guardare il mondo che bruciava della propria peste,
Hai pensato di poterti rialzare,
sopra un mondo che cade nel dirupo del male.

Hai dimenticato cosa veramente aveva spinto
il più bello tra gli arcangeli a cadere dal dipinto
a tentare di riscrivere il futuro già deciso
da chi adesso quelle ali gli ha reciso.

Ti sei imposto che in quel baratro in cui sei caduto
vorrai portare con te ogni tuo prossimo detenuto.
Per scontare la tua pena insieme a coloro per cui
per la tua gelosia hai preferito te a Lui.

Non ho mai provato ad amarti, in fondo,
ho immaginato fosse più semplice spezzarti.
Ma ci ritroveremo ancora insieme, nella notte del giudizio
e combatterò per te. Metterò fine al tuo supplizio.

Hai scelto di sacrificare la tua dignità
Come sempre hai peccato quasi solo di viltà
Dopo tutta questa frustrazione
di una strenua profanazione.
Ucciderti? Nient’altro che competizione.

Sei stato accecato dalla stella del mattino
a cui ti sei piegato con un caloroso inchino
con la schiena curva come quella di un facchino
come quando porgi tristi onori sul tuo stesso baldacchino.

Sei convinto che la morte sia la tappa terminale
ma non sei ancora all’inizio della scalata del crinale
con cui vuoi giustificare il tuo spirito animale
ti sei perso nell’abbraccio freddo del tuo stesso male.

Nel concepimento del conclave - Lui che dorme -
ci hai privato della Luce in tutte le sue forme
nell’intento di seguire le sue orme.

Te ne sei corto troppo tardi,
penzolavi dalla forca a testa in giù,
ti riporterò all’Inferno,
è inutile che ti contorca più.

Non ho mai provato ad amarti, in fondo,
ho immaginato fosse più semplice spezzarti.
Ma ci ritroveremo ancora insieme, nella notte del giudizio
e combatterò per te. Metterò fine al tuo supplizio.

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Base - Pasquale Guerra
Behind this wall

Use a vent between the bricks
to spy me into my life,
use a vent between the bricks
to see me behind the wall.

When I was here alone
I was peaceful with the world.
You took my heart that was broken,
you attached the pieces with your love.

When I was here with you
I was peaceful with our world.
But you took my heart that was calm,
you attacked its limbs with your nails.

Use a vent between the bricks
to spy me into my life,
use a vent between the bricks
to see me behind the wall.

Now I am here alone
I am angry with the world.
You take a heart that is broken
you attached the pieces with your lies.

Now I am here with me
I am ready to avoid the world,
but she takes my heart that was hard
and she smoothes it with her love.

Use a vent between the bricks
to spy me into my life,
use a vent between the bricks
to see me behind the wall.

Use a vent between the bricks
to spy me into my life,
use a vent between the bricks
to see me behind the wall.

Voce - Arturo Raja
Chitarra Elettrica - Gabriele Volpe
Chitarra Acustica - Paolo Termini
Chitarra Elettrica - Arturo Raja
Basso Elettrico - Michele Lener
Batteria - Nicola Sassano
Morire soli | monologo

La ragazza è in piedi, giù dal palco al buio, inerme e inespressiva; rivolta a sinistra, osserva un punto fisso di fronte a sé.
La scena rappresenta la banchina della ferrovia, la ragazza è sulle rotaie, in attesa del treno.
Il ragazzo comincia a parlare in buio, poi lentamente luce.

Afferra la mia mano, dai. Sali su. Ti prego. Non deve finire così. Possiamo parlarne. Che cazzo, almeno guardami! Dai, ti do una mano io a salire. Dammi la mano, fallo per me. Fallo per tutti quelli che ti vogliono bene. Perché fai questo? Perché vuoi darmi tanto dolore? Ti prego parlami. Non posso restare qui a parlare con te che non rispondi. Di’ qualcosa, cazzo! Mi fai male, lo sai? Se non vuoi vivere per te stessa, almeno fallo per me. Per nessun altro, solo per me.
Stai scegliendo la morte a me. È egoista, lo sai? Non pensi a come potrei sentirmi io se mi abbandonassi davvero? Se il treno arrivasse e morissi davanti ai miei occhi? Cazzo, non lo sopporterei. Non ci pensi a questo? Vieni da me, com’è che diceva quella poesia che ti piace tanto? Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Il ragazzo piange.

Vuoi farmi sentire quel vuoto? Vorrei continuare a scendere insieme quei gradini. Uno per volta. Se non ce la fai ti do una mano. Però dimmi qualcosa. Dimmi perché! Perché non vuoi continuare a vivere, con me? Resta qui, resta con me, resta per me. Non capisco come fai a preferire la fine, la vera fine, la cazzo di morte, il buio infinito e sconosciuto a noi. Alle nostre passeggiate, ai nostri giochi, alle risate, al tuo bellissimo sorriso. Lo so, è ingiusto, non è per me che dovresti voler vivere.
Ecco, guarda, mi hai fatto piangere. Tu che odi vedermi piangere. Tu che tutte le volte che ho raccontato le mie fantasie suicide mi costringevi ad accostarci una risata, asciugandomi le lacrime, e dicendomi che la vita infierisce sul tuo cadavere, ma se riesci a rialzarti non sarà lei a darti il colpo di grazia. Mi hai detto che, quando piango, ti senti tanto in colpa da sentire un peso, o magari una voragine, un dolore nel petto che ti stringe il cuore, e senti il bisogno di farmi compagnia, e di piangere insieme a me, accanto a me, per non farmi sentire solo. Io adesso mi sento solo, perché tu mi hai costretto a piangere, e tu te ne stai lì a guardare il vuoto aspettando che arrivi il treno a farti a pezzi, e non piangi con me.
Hai già pianto per questo momento, non è vero? Quante volte ci hai pensato, e non mi hai detto niente? Quando hai deciso di donare il tuo corpo alla terra e ai vermi per non sentire il dolore che ti porti dentro? Per quanto l’hai tenuto per te?

Il ragazzo si asciuga le lacrime.

Eccoti qui, ad autoinfliggerti il colpo di grazia che la vita non ha avuto il coraggio di darti. Eccomi qui, a cercare di convincerti a prendere una decisione che non credo prenderei se fossi io lì sotto.

Il ragazzo ritira la mano verso di sé.

Ti va se ti faccio compagnia?

Il ragazzo scende dal palco, si posiziona in piedi, accanto alla ragazza, che continua a guardarlo. Lui la prende per mano, cammina e si porta al centro. Si volta verso di lei, le da un bacio carezzandole il viso.
Suono del treno in corsa crescente.

Io scelgo te, tu scegli te stessa.

Suono della tromba del treno. Accecatori.
Il ragazzo spinge la ragazza verso la platea.

Buio.

Interprete: Mario Fedele
Tratto da: Vietato oltrepassare la linea gialla di Arturo Raja e Claudia Giaquinto
'A morte d'e risate

You're the tears I cry,
you're the picture in my mind,
the reason for my open eyes
all night long.

Quanno veco chiaro
dinto ’o core ‘e chist’ammore,
quanno ll’anema suspira
me vene ’n pietto nu dulore.

M’o sento dinto ’e recchie,
dinto ’o stommaco ca se gira
’sto tormento c’aggio jettato
tutt’ chell ch’aggio fatto primma,

tutt’ chell ch’aggio fatto fino a mo’.

’A morte d’ ’e risate
ca m’arrivano ’a lontano,
cu ’a tortura d’ ’o murtorio
me se pigliano pe’ mano.

Je m’ stennette ’n terra,
sentevo ’e cosce bubbulià,
sentevo ’o core sparpetià
e ll’anema alluccà.

Ll’anema accussì,
verenn’ ’a vocca aperta,
mmiez’ ’e lacrime salate
pigliàje n’abbiate e ascétte.

E ll’anema se ne jette.

You're the tears I cry,
you're the picture in my mind,
the reason for my open eyes
all night long.

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Chitarra Acustica - Arturo Raja
Pianoforte - Aronne Letizia
Violino - Marco Melillo
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Contrabbasso - Fabrizio Mandara
Basso Elettrico - Michele Lener
Batteria - Nicola Sassano
Cent'anni

Sei come un tramonto
un tramonto come
non si sono visti mai.

È un tramonto come tanti
ma nel riflesso dei tuoi occhi
sembra il primo, lo sai.

Non aspetto più un'alba,
più un tramonto,
lo sbocciare di un fiore,
l'arrivo di un'onda.

Ma se il sole un giorno
non aprisse gli occhi
sentirei un dolore
che non se ne andrà.

Se il sole un giorno
non andasse a dormire
non vedrei più le luci
che non c'erano cent'anni fa.

Sei come un bambino
che ha appena imparato
che può andare dove gli va

sa che può cadere
ma uno sguardo
va sempre un po' più in là.

Che ha paura del fuoco
perché il giorno prima
si è scottato la mano.

Che il tempo gli scorre
a tempo del cuore
che va ancora così piano.

Aspetta l'alba,
poi il tramonto
lo sbocciare di un fiore,
l'arrivo di un'onda.

Sa che il sole un giorno
non aprirà gli occhi
e sentirà un dolore
che non se ne andrà.

Che il sole un giorno
non andrà a dormire
e non vedrà più le luci
che non c'erano cent'anni fa.

Ma il sole sorge
sempre tramonta
se lo sai aspettare
se non ci stai a pensare.

Ma se il sole un giorno
non aprisse gli occhi
sentirei un dolore
che non se ne andrà.

Se il sole un giorno
non andasse a dormire
non vedrei più le luci
che non c'erano cent'anni fa.

Voce - Arturo Raja
Controvoci - Erica Raja, Giulia Ippolito
Chitarra Acustica - Arturo Raja
Pianoforte - Aronne Letizia
Violino - Marco Melillo
Viola - Fausto Elena
Violoncello - Gaia D'Angiolillo
Contrabbasso - Fabrizio Mandara
Basso Elettrico - Michele Lener
Batteria - Nicola Sassano

Scopri Concerto

Lo spettacolo è articolato in tre atti, ciascuno come un capitolo di un percorso emotivo e musicale:

Atto I – Il buio interiore

Qui il viaggio è dentro di noi, tra paure, desideri, ricordi e frammenti di memoria. Le canzoni diventano pulsazioni dell’anima. In Fu libertà si percepiscono i vincoli invisibili della mente, mentre Per un singolo attimo racconta il desiderio di fermare il tempo, di trattenere ciò che ci sfugge. Come vorrei e In me esplorano la fragilità e il caos dei pensieri, e Quel desiderio diventa invocazione all’arte, alla musica, alla vita stessa.

Atto II – Lo scontro con il mondo

Qui ci confrontiamo con l’esterno, con ingiustizie e contraddizioni. Le canzoni sono riflessione e denuncia: in Uomini ciechi e Dita osserviamo la cieca obbedienza e l’oppressione, in Casa mia la fuga e la ricerca di un luogo dove essere liberi. Ti hanno detto racconta il dolore delle imposizioni altrui, La cultura dell’ormai (Somma) il senso di disillusione e passività, mentre Siamo noi diventa manifesto di libertà, uguaglianza e responsabilità condivisa.

Atto III – Io e noi

La conclusione del viaggio mette in luce legami, relazioni e vulnerabilità. In Foglietto in un cassetto di legno di ciliegio e Penserai affiorano ricordi e introspezione, Fammi ridere e Giullare di corte raccontano resistenza e ironia, Behind this wall la difficoltà di proteggersi pur restando aperti agli altri, e ‘A morte d’ ’e risate il potere liberatorio della risata e della condivisione. Cent’anni chiude il percorso con un senso di continuità e speranza, di attesa e rinnovamento.

Ogni atto, ogni canzone, ogni parola del monologo è un pezzo di un mosaico emotivo, una finestra sulla complessità dell’essere umano. Lo spettacolo non è solo il fulcro della mia ricerca, ma un esempio di come musica, parola e immaginazione possano intrecciarsi per creare nuove forme di comunicazione.15